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Perché “I may destroy you” è un vero e proprio manifesto femminista

I may destroy you

“I may destroy you”: “Prima di essere stuprata non ho mai pensato all’essere donna. Ero impegnata ad essere nera e povera.”
Probabilmente solo una delle frasi emblematiche della nuova “sexual-consent drama” (“serie TV sul tema del consenso sessuale”) targata BBC one e HBO: “I may destroy you.
Il nuovo prodotto britannico è scritto, interpretato ed in parte diretto dall’artista anglo-ghanese Michaela Coel ed è probabilmente la sua natura (parzialmente) autobiografica a conferirgli estrema audacia e “autenticità”. L’autrice, infatti, scrive questa storia ispirandosi alla sua esperienza personale, essendo stata vittima di violenza sessuale mentre lavorava alla seconda stagione del suo primo show “Chewing Gum”. Questo coraggio consapevole, infatti, la rende una serie necessaria, soprattutto perché, nel parlare di violenza sessuale, si discosta intenzionalmente dal politicamente corretto, affrontando anche il concetto di “consenso” in modo nuovo, non avendo la minima intenzione di dipingere la donna come un’essere evangelico ma volendo sottolineare che: “uno stupro è uno stupro”. È interessante, infatti, come ad emergere sia anche una riflessione riguardo la famosa linea immaginaria che stabilisce cosa è violenza e cosa no. Una linea che, di certo, non è stata disegnata da una donna.
 

“I may destroy you”: Un trauma che emerge gradualmente 

La serie è composta da 12 episodi da 30 minuti circa, che riproducono gradualmente un percorso di cicatrizzazione e di guarigione doloroso ma sempre più consapevole della protagonista, Arabella, scrittrice e star di Twitter, che attraverso una serie di flashback iniziali, prende letteralmente visione di ciò che le è accaduto. Sin dai primi episodi si sviluppa questa ricostruzione a ritroso in cui Arabella verrà aiutata dai suoi amici Terry (Weruche Opia) e Kwame (Paapa Essiedu) prima a denunciare la violenza, cosa che non è sempre scontata, e poi a superare il trauma della stessa violenza subita.
Il percorso scostante che precede la guarigione di Arabella ci trasmette anche l’importanza di ascoltarsi e di non pretendere di essere audaci in ogni momento, di potersi prendere il diritto di toccare il proprio dolore quando si è pronti a farlo.
Il viaggio intrapreso dalla protagonista farà emergere tutta una serie di riflessioni relative non solo alla sua esperienza traumatica in quanto donna, ma in quanto donna “nera” con un preciso background socio-culturale e una popolarità virtuale ormai dilagante.

“I may destroy you”: Oltre il tema dello stupro

Nonostante la serie mostri un preponderante interesse per il tema dello stupro, in realtà gravitano intorno ad esso molti altri argomenti. I may destroy you è, difatti, una serie eclettica, che attraverso una storia dà vita ad altre storie circostanti in cui emerge l’imperfezione dei rapporti umani, la giustizia sociale che è prerogativa solo di una parte di società, la discriminazione nelle sue varie sfumature. Parla del concetto di “sorellanza”, di un “nido” familiare in senso più ampio che si discosta da un significato meramente biologico del termine e fa emergere quanto sia importante, soprattutto in momenti così destabilizzanti della vita, avere delle persone accanto. La famiglia che ti scegli, insomma. Un altro tema estremamente delicato è anche quello della fragilità maschile a seguito di una violenza ed è interessante osservare come la fragilità ci sia sempre stata presentata come una questione di genere. Non meno importante è il tema della giustizia che sembra essere prerogativa solo di una fetta privilegiata di società e della consapevolezza di come quella giustizia venga pilotata dal sistema.

La Coel dichiara alla BBC: “La serie gira attorno a quel momento in cui ti è stato rubato il consenso e hai perso il potere di prendere una decisione. Puntarsi il dito contro e incolpare se stessi è la cosa più inutile” e, nel rivolgersi probabilmente a chi il trauma della violenza sappia cosa sia: Dobbiamo essere più gentili con noi stessi e perdonarci per i momenti in cui non abbiamo detto ‘No’ abbastanza forte”.

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